LA STORIA DI ANNA - 30 anni

La preoccupazione costante

Sono sempre stata una persona molto ansiosa ma mi resi conto quasi subito che la mia preoccupazione a volte diventava pervasiva, forte e amplificata rispetto al problema con cui mi confrontavo.
Stavo attraversando un periodo di forte stress; Sara, mia figlia, aveva qualche mese e avevo iniziato da qualche settimana il processo per la separazione. Mio marito, dopo la nascita di nostra figlia, aveva iniziato a sentirsi oppresso dal carico di responsabilità ed era tornato a vivere nella sua città di origine.

Mi sentivo irrequieta, ogni cosa mi spossava, ma soprattutto avevo difficoltà a concentrarmi e questo aspetto mi rendeva ancora più vulnerabile, perché ogni difficoltà diventava insormontabile!
Era Gennaio e dovevo riportare mia figlia al nido dopo la pausa natalizia. Ricordo che quel giorno, mentre la vestivo, iniziai a pensare “e se ora non si trovasse più bene con le maestre?”. Questa frase innescò una serie di altri pensieri sempre più catastrofici “non potrei più portarla al nido, e questo mi impedirebbe di rientrare a lavoro, sicuramente mi licenzieranno e io non avrò più la possibilità di sfamarla, arriveranno gli assistenti sociali e mi diranno che non potrò più tenerla con me perché non sono in grado di crescerla e di darle protezione… e resterò sola”.  Quando avevo finito di formulare questo pensiero, mi accorsi di essere madida di sudore, il battito cardiaco era accelerato e faticavo a respirare; mi sentivo mancare l’aria. Sarah nel frattempo si era messa a piangere e io non capivo più dove fossi. Chiamai mia madre al telefono e arrivò dopo pochi minuti.
Da quel giorno, fino a quando ho deciso di farmi aiutare, ho sempre bisogno che ci fosse  qualcuno accanto a me, perché temevo che potesse succedere il peggio, e che se avessi continuato a preoccuparmi in quel modo sarei impazzita..
Sentivo che non avevo più il controllo delle mie rimuginazioni, ma allo stesso tempo ero convinta che se mi fossi preoccupata dei peggiori sviluppi di una situazione e fossi riuscita a prepararmi, probabilmente sarei riuscita a farcela nel caso in cui tale evento si fosse verificato. Preoccuparmi mi aiutava a stare all’erta!
Decisi di farmi aiutare quando si verificò l’attacco di panico più forte. Una mattina arrivai a lavoro alla solita ora, salutai le colleghe e prendemmo il caffè insieme. Dopo 30’ minuti mi accorsi che la mia collega e amica non era ancora arrivata e ciò era insolito; era sempre molto puntuale e, se aveva un impegno, di solito lo comunicava. In quel momento mi balenò in mente un pensiero “e se avesse avuto un incidente? forse chiamerebbe, ma se non chiama è stata coinvolta in un incidente grave; forse dovrei chiamare tutti gli ospedali e farmi dire dove è stata ricoverata; e se fosse morta?” in quel momento quel pensiero mi tolse il respiro, sentii le mie gambe diventare molli, lo stomaco mi si chiuse e la vista si appannò. Sentivo la voce delle mie colleghe che mi chiedevano se stavo bene e se volevo un po’ di zucchero per riprendermi ma non riuscivo a distinguere da dove provenissero le voci. Mi sedetti e aspettai che il livello di ansia si abbassasse e che il cuore riprendesse un battito normale. In quel momento la porta si aprì e Monica, la mia amica, entrò sorridente; aveva incontrato una sua collega di università lungo la strada e si era fermata a prendere un caffè con lei!
Capii in quel momento che avevo costruito da sola una catastrofe e che non riuscivo più a controllare i miei pensieri; avevo bisogno di aiuto.
Iniziai la terapia, dopo qualche seduta di valutazione; la psicologa che mi accolse fu molto scrupolosa nel pormi domande  specifiche sugli episodi che mi avevano causato disagio. Questo le permise di formulare una diagnosi di Disturbo d’ansia generalizzato e di propormi un trattamento adeguato a risolvere il mio problema. Mi disse che era un trattamento di provata efficacia e mi indicò le referenze per poter verificare quanto asserito. Questo aspetto mi tranquillizzò molto. Avevo già affrontato in passato una psicoterapia ma non saprei nemmeno di dire che approccio seguisse quel terapeuta.
E’ stato un percorso impegnativo perché la terapia cognitiva coinvolge in modo attivo e con diverse attività, tra una seduta e l’altra, anche il cliente/paziente. Credo che gran parte dell’efficacia di questa terapia stia proprio nel considerare il cliente/paziente l’esperto del proprio problema, mentre il terapeuta è l’esperto del tecniche e delle teorie che possono guidarlo agevolmente verso la risoluzione del disturbo presentato.
Alla 18ma seduta la psicoterapeuta mi disse che avrei dovuto rispondere ad una parte dei test che feci in ingresso; mi spiegò che le serviva per misurare i progressi effettuati. Sentivo che il mio problema era superato e lo vedevo da come stavo con la mia bambina, con mia madre e con tutte le persone che mi circondavano. Non solo avevo risolto il mio problema ma avevo imparato a capire perché l’ansia si manifestava in modo così forte e dirompente. Avevo la sensazione di non ricaderci nuovamente e questo mi rendeva molto serena.
I test confermarono il miglioramento, ma la dottoressa mi fissò un nuovo colloquio a sei mesi dalla fine del trattamento. Mi spiegò che si trattava di una procedura del centro, totalmente gratuita; è il loro modo di accertarsi che i risultati siano duraturi. Superai anche quell’ostacolo e la mia sensazione di aver cambiato il mio modo di pensare e di agire diventò una certezza!

 

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